Le inutili forzature
Cécile Kyenge, che vive la nomina a ministro dell'Integrazione con una certa euforica loquacità, è riuscita a farsi bacchettare perfino dal presidente dei medici stranieri in Italia, Foad Aodi. Il quale le ha raccomandato di muoversi «con cautela». Un passo alla volta. Partendo «dalle cose che uniscono e non da quelle che dividono». Parole d'oro. A mettere troppa carne al fuoco, com'è noto, si rischia di bruciare tutto.
Il tema centrale, gli altri vengono dopo, è quello sollevato da Giorgio Napolitano quando si augurò che «in Parlamento si possa affrontare la questione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati. Negarla è un'autentica follia, un'assurdità. I bambini hanno questa aspirazione». Verissimo. Ed è uno dei temi che possono unire. Purché, appunto, lo si faccia nel modo giusto. Annunciare genericamente il passaggio dallo ius sanguinis allo ius soli , cioè dalla cittadinanza ereditata dai genitori a quella riconosciuta automaticamente a chi nasce qui, senza spiegare bene «come» e con quali regole, è un errore.
Per carità, le reazioni isteriche di razzisti del web o della politica come Mario Borghezio, che si è spinto a parlare di un «governo bongo bongo» e a dire che gli africani «non hanno mai prodotto grandi geni, basta consultare l'enciclopedia di Topolino», ignorando che erano neri ad esempio Esopo e Alexandre Dumas, cioè due dei più grandi e dei più tradotti scrittori di tutti i tempi, andavano messe in conto. I razzisti sono quella roba lì...
Il guaio è che il modo con cui la Kyenge ha annunciato, insieme con tante altre cose, un disegno di legge in «poche settimane» per lo ius soli è stato così spiccio e insieme vago da creare una reazione di inquietudine, se non di ostilità, anche tra molti che danno per ovvia la necessità di cambiare la legge attuale. In realtà, come hanno spiegato Graziella Bertocchi e Chiara Strozzi nel saggio L'evoluzione delle leggi sulla cittadinanza: una prospettiva globale , non esiste una ricetta universale. Nell'Europa del Settecento dominava lo ius soli figlio del feudalesimo che legava l'uomo alla terra e al feudatario. E lo ius sanguinis d'origine romana che oggi ci pare egoista verso gli «altri», fu reintrodotto proprio dopo la Rivoluzione Francese. Non è automatico che di qua stiano i buoni e di là i cattivi. In diversi Paesi africani dopo l'indipendenza, Congo compreso, chi aveva lo ius soli l'abolì all'istante per passare allo ius sanguinis prevedendo in vari casi l'«obbligo» di pelle nera. Una reazione forse comprensibile dopo il colonialismo ma, piaccia o no, razzista.
Certo è che, stando ai numeri, buona parte dei Paesi civili ha seguito da mezzo secolo in qua un percorso abbastanza comune verso l'approdo più sensato: il sistema misto. Nel 1948 lo ius soli , scrivono le due studiose citate, «risulta applicato nel 47% circa dei Paesi (76 su 162), lo ius sanguinis nel 41% (67 Paesi)» mentre il misto è adottato nel restante 12%. Tra i Paesi dove i nati sul suolo patrio erano subito cittadini c'erano «gli Stati Uniti, il Canada, tutti i Paesi dell'Oceania, la maggior parte dei Paesi dell'America Latina, le colonie inglesi e portoghesi in Africa e Asia e, in Europa, Regno Unito, Irlanda e Portogallo».
Oggi non è più così: solo gli Usa hanno mantenuto di fatto lo ius soli integrale. Gli altri, davanti alle grandi ondate migratorie che rischiavano di scatenare reazioni xenofobe difficili da gestire e dunque negative per gli stessi immigrati, hanno preferito introdurre nuove regole. Esattamente come altri Paesi dove valeva lo ius sanguinis ed erano in imbarazzo nei confronti di tanti cittadini nati e cresciuti lì, hanno seguito il percorso opposto andando loro pure verso il misto. Cioè il riconoscimento della cittadinanza grazie al doppio ius soli (ai figli di chi già era nato sul posto) o a precise norme, più o meno restrittive (esempio tedesco: dopo 8 anni di residenza dei genitori) che garantiscano a chi è nato sul luogo la certezza di diventare un cittadino per un diritto e non per concessione di questa o quella autorità.
Fatto sta che se nel 2001 erano ancora legati allo ius sanguinis il 69% dei Paesi africani, l'83% di quelli asiatici, l'89% di quelli latino-americani, l'Europa in gran parte era già passata al «misto». Che via via ha visto aggregarsi l'Irlanda, il Portogallo, la Grecia... Insomma, i bambini nati in Italia che frequentano le nostre scuole e parlano solo italiano e cantano l'inno di Mameli e magari vincono come Lihao Zhang il premio Voghera per la poesia dialettale lombarda, aspettano da tempo una risposta. E se rispettano le regole hanno diritto a diventare italiani. Ma proprio per riconoscere loro questo diritto occorre stare alla larga da improvvise forzature solitarie. E soprattutto da certe ambiguità che eccitano le risse e non aiutano il dialogo.
Un editoriale di Gian Antonio Stella sull'argomento. Spunti di riflessione interessanti sul problema.